Guerra ai writers e tolleranza zero

Un paio di settimane fa, a Bologna, un gruppo di ragazzi è stato
fermato mentre faceva delle scritte e dei disegni su un muro del centro
cittadino. Nei giorni subito seguenti (con una rapidità degna di
miglior causa) sono stati processati e condannati.

Per la prima volta nella storia della repubblica italiana sei persone
sono state condannate a pene detentive per aver scritto su un muro:
Juan Antonio Fernandez Sorroche e Miroslav Bogunovic a dieci mesi di
carcere, David Martini, Michele Alessio Del Sordo, Belle Alicia Murphy
a quattro mesi. A nessuno è stata concessa la sospensione condizionale
della pena, nemmeno agli ultimi tre, Martini, Murphy e Del Sordo,
incensurati. Così ha deciso il giudice di Bologna Liviana Gobbi. Non se
n'è parlato molto, di questa sentenza, anzi quasi è passata
inosservata. Eppure si tratta di una sentenza raccapricciante di un
vero segno di barbarie il cui primo responsabile è colui che ha usato
Bologna per sperimentare la politica securitaria che, pur essendo
fallita politicamente in questa città dato che ha portato il governo
cittadino allo sfascio, oggi sembra essere divenuta la linea del
Ministro Amato. Dieci mesi di carcere senza condizionale per avere
scritto su un muro. Qualcuno osservato che scrivere sui muri sporca i
muri della città. Ma se le pareti cittadine sono sporche questo è
dovuto soprattutto agli enormi cartelloni levigati che incitano al
consumo. Ci sono schermi perfino sugli autobus e nella stazione
ferroviaria che ripetono continuamente quale sapone dobbiamo comprare e
quale auto dobbiamo condurre a duecento all'ora. L'inquinamento
acustico e visivo che la pubblicità impone in ogni momento non è forse
una violenza molto più grande e sistematica di quella dei writers? La
sentenza, che in un primo momento è passata nel silenzio generale,
forse può diventare l'occasione per aprire questioni di grande
interesse, dalla questione della libertà di espressione, a
quell'inquinamento pubblicitario, a quella del rapporto tra arte e
spazi urbani.
Su Il Domani , giornale cittadino bolognese, domenica 28 ottobre Oscar
Marchisio, a nome del Cantiere metropolitano lancia una proposta: un
incontro internazionale del graffitismo contemporaneo da tenersi a
Bologna. Nel 1983 alla Galleria d'arte moderna di Bologna Francesca
Alinovi organizzò una mostra sul graffitismo americano che presentò il
lavoro di Dash, Rammelzee, Keith Haring, Chamberlain e gli altri
artisti di strada dei primi anni Ottanta. A partire dal futurismo e dal
dadaismo, l'arte del Novecento punta a rompere la barriera fra l'arte e
la vita quotidiana, e in particolare la barriera che separa l'attività
dell'artista da quella dell'urbanista. L'incontro proposta dal cantiere
metropolitano sarà anzitutto l'occasione per ricostruire la storia dei
rapporti tra avanguardie artistiche e creazione dello spazio pubblico.
Ma un altro aspetto importante è il rapporto fra creatività e
produzione sociale. Le ricerche di Richard Florida sulla classe
creativa hanno dimostrato che una società è tanto più dinamica e
innovativa quanto più favorisce la formazione e la libera espressione
di un vasto numero di lavoratori creativi. Una città come Bologna non
può non essere sensibile a questo tema, dal momento che la sua vitalità
è sempre stata legata alla produzione di saperi, di forme di vita e di
stili. Nei suoi libri ( The rise of the Creative Class , 2002 e The
Flight of the Creative class , 2005) Richard Florida sostiene che la
formazione e la concentrazione della classe creativa sono legate a tre
fattori: tecnologia, talento e tolleranza.
Il caso di Bologna rientra benissimo nella teoria di Florida. Da quando
il clima sociale e culturale della città si è cofferatizzato, l'appeal
della città si è ridotto, fino al punto che quest'anno all'Università
di Bologna le iscrizioni sono calate del 10%. Se pensiamo ai toni
paranoici con cui è stata costruita la campagna securitaria, e agli
effetti di aggressività e diffidenza che questa campagna ha prodotto
nella vita quotidiana della gente, è comprensibile che le famiglie
sconsiglino ai figli di andare in quella specie di Sodoma e Gomorra. Se
è vero che la tolleranza è una delle qualità che rendono una città
dinamica e attrattiva per le energie creative, cosa dobbiamo pensare di
una città che ha costruito la sua immagine recente sulla base dello
slogan "tolleranza zero"?
Racconto un episodio che mi è capitato qualche sera fa: ho chiamato un
taxi e ho detto all'autista l'indirizzo dove avrei voluto andare: via
Zamboni, la via che attraversa il quartiere universitario, intorno a
cui la stampa cittadina ha costruito leggende terrificanti, e su cui si
esercita l'inventiva sicuritaria dei benpensanti. Il giovane taxista
(un ragazzone alto un metro e novanta) si è voltato e mi ha detto: «In
quel posto non ci vado neanche morto. Fanno a bottigliate tutte le
sere, accoltellano la gente. La macchina è mia non voglio che me la
distruggano. Certa gente dovrebbe essere eliminata». Mi ha detto
proprio così, queste quattro frasi in rapida successione. Io abito in
quella via da sei anni e non mi è successo mai niente. I ragazzi si
abbracciano, strepitano, comprano marijuana se si trova, oppure bevono
birra, qualcuno vomita in un angolo qualcuno piange perché la ragazza
l'ha piantato. Niente di cui preoccuparsi.
Un incontro del graffitismo internazionale è l'occasione giusta per
aprire un canale di comunicazione sulla bellezza e la piacevolezza
della vita urbana, coinvolgendo insieme studenti e residenti, artisti e
commercianti. E anche per dichiarare collettivamente e pubblicamente
che la repressione è sempre il modo peggiore per affrontare i bisogni
espressivi.

Franco Berardi Bifo

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