Le “procedure innovative” a Guantanamo

Guantanamo rimane una zona grigia (ma sarebbe più opportuno parlare di nero pece) degli esportatori di democrazia nel piccolo mondo. Lì nasce un’idea di violenza nei confronti dei detenuti, si può tornare a parlare di tortura come nel medioevo in alcuni casi, e dal’atollo cubano (banco di prova) si esportano nel mondo civilizzato e non. Quindi ci sembrava interessante ripostarvi qui queste interessanti notizie riguardanti proprio la prigione più tristemente famosa del mondo.

Da IndyAbruzzo 

Da alcuni giorni a questa parte, grazie a un sito – www.wikileaks.org – e a un cybernauta che ha scovato, postato e reso pubblico questo documento, le tecniche utilizzate a Guantanamo per convincere i detenuti a collaborare durante gli interrogatori sono sotto gli occhi di tutti. E lo rimarranno ancora, dato che la richiesta del Pentagono di censura è stata respinta dal sito.

Quando si dice: un marchio, una garanzia. Sul marchio – la firma in questione è quella di Geoffrey D. Miller – è lecito aspettarsi un po’ di tutto, ma mai niente di buono. Non sorprende, infatti, che in calce al documento destinato ai carcerieri di Guantanamo, ci sia proprio il suo nome. Nominato alla fine del 2002 comandante di una prigione al di sopra di tutte le leggi, costretto alla pensione nel 2006 dopo un’infinità di polemiche sulle variegate torture denunciate da alcuni ex prigionieri, Miller è passato alla storia per i risultati ottenuti ad Abu Ghraib, in Iraq. Risultati ampiamente documentati da foto scandalose, soprattutto per una nazione che si è data il ruolo di guida democratica del mondo. Risultati che a Miller hanno fruttato una medaglia al merito, la Distinguished Service Medal, a testimoniare il suo ruolo di “innovatore”. Del resto, come negare il carattere innovativo di molti dei metodi elencati nelle 238 pagine dirette a Cuba e datate 28 marzo 2003, poco dopo l’inizio della guerra in Iraq? Da alcuni giorni a questa parte, grazie a un sito – wikileaks.org – e a un cybernauta che ha scovato, postato e reso pubblico questo documento, le tecniche utilizzate a Guantanamo per convincere i detenuti a collaborare durante gli interrogatori sono sotto gli occhi di tutti. E lo rimarranno ancora, dato che la richiesta del Pentagono di censura è stata respinta dal sito.

Dietro al titolo asettico di Camp Delta Standard Operating Procedures – Procedure operative standard per il Campo Delta – si nascondono una serie di pratiche in palese violazione della Convenzione di Ginevra in difesa dei prigionieri di guerra. Alberto Gonzales, l’uomo che fino allo scorso settembre guidava il dipartimento della Giustizia americano, non aveva mai fatto mistero di considerare la Convenzione “obsoleta”, non più valida per talebani e terroristi di al-Qaeda. E, a leggere queste 238 pagine, le minuziose descrizioni dei vari blocchi, il sistema di premi e punizioni, la classificazione di pericolosità dei detenuti, sorprende la razionalità e la sistematicità con cui gli americani hanno sistematicamente violato i diritti di semplici sospettati.

Attualmente, sarebbero circa 350 i presunti terroristi rinchiusi in questa prigione di 116 chilometri quadrati, costruita su un territorio cubano ma sotto giurisdizione americana dal 1903 (con un “affitto perpetuo” mai riconosciuto dalle autorità dell’isola). Persone alle quali non è concesso il diritto di difendere se stessi davanti a un giudice. Diritto sacrificato al sacro altare della lotta al terrorismo.

E allora, non sorprende che questo documento dia prova di quanto le associazioni per i diritti civili continuano a dire da sempre, ossia che una parte dei prigionieri viene nascosta anche agli inviati della Croce Rossa internazionale. Certo, due anni fa il vicepresidente Dick Cheney aveva detto che i prigionieri di Guantanamo “vivono ai tropici, sono ben nutriti e hanno tutto quello che possono desiderare”. Insomma, poco meno di una vacanza. Una singolare “vacanza”, a dire il vero, se si considera che il benvenuto consiste, per protocollo e raccomandazione di Miller, in almeno due settimane di semi-isolamento, strumento fondamentale per causare “disorientamento” e rendere più malleabili i detenuti durante gli interrogatori. Inoltre, nei primi trenta giorni di reclusione, è fatto divieto di essere visitati dalla Croce Rossa, di ricevere libri, lettere o assistenza spirituale. Peccato che questa pratica sia ufficialmente considerata come atto di tortura psicologica. Tortura che si va ad aggiungere a quelle fisiche raccontante da ex prigionieri.

Non solo. I detenuti – stabiliscono le direttive – devono essere distinti in quattro categorie: quelli con un unrestricted access, che possono essere visitati dagli inviati della Croce Rossa; quelli con un restricted access, che possono solo essere visitati ma non possono comunicare solo quanto concerne la sua salute; quelli con un , ossia che possono solo essere osservati e, infine, i no access, totalmente esclusi dal contatto con il personale dell’organizzazione internazionale. Facile intuire il perché della scelta di nascondere agli occhi del mondo i detenuti considerati più pericolosi, più importanti e, quindi, più sottoposti a torture di ogni sorta. Ovviamente, però, il documento proibisce qualsiasi tipo di violenza fisica.

Un’altra distinzione interessante è quella fatta sulla base della collaborazione e del comportamento tenuto in carcere. A ognuno di cinque livelli corrisponde una collocazione del prigioniero in una specifica parte del carcere. E finire nei campi di massima sicurezza, ossia quelli degli ultimi due livelli, significa essere costretti quasi sempre all’isolamento, privati di tutto, anche carta, matita, libri. Ai più diligenti, invece, tre coperte invece di due, rotoli in più di carta igienica, sale, saponette, una doccia in più la settimana e un’uscita in più al giorno, “addirittura” scacchi o carte da gioco. Peccato che, secondo quando riferisce l’Economist, un anno dopo l’apertura di Guantanamo, ad essere in regime di massima sicurezza era ben il 70 per cento dei detenuti. Un capitolo a parte, poi, è quello dell’uso dei cani come metodo d’intimidazione. Metodi, anche in questo caso, ampiamente mostrati dalle fotografie di Abu Ghraib.

Dopo una visita svolta lo scorso aprile, Jacob Kellenberger – presidente del Comitato internazionale della Croce Rossa, ha dichiarato di aver visto “miglioramenti significativi” all’interno del campo, rispetto alla situazione del 2002-2003, quando i prigionieri vivevano nel Camp X-Ray e non nella struttura attuale, che prevede celle più dignitose. Rimane una situazione indegna di una nazione democratica, dove centinaia di persone sono considerate – e trattate – come terroristi a prescindere, senza aver subito alcun processo. I dettagli resi noti da questo documento danno solo conferme.

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